Riccardo Bellandi

I SIGNORI DELL'APPENNINO. Amori e battaglie nella Toscana del Duecento 

Firenze, 2010, 2015
pagine: 624
VERSIONE CARTACEA
caratteristiche: br, 12x20
ISBN: 978-88-56401-01-1 
prezzo: 18,00 €



Personaggi storici 



UBALDINI DA MONTACCIANICO

 


Il Cardinale Ottaviano degli Ubaldini (Mugello, 1201-1272)

  Discendente di una potente famiglia aristocratica del Mugello tradizionalmente fedele all'imperatore, nacque non prima del 1210 da Ugolino d'Albizzo e sua moglie Adelaide.

   La sua carriera ecclesiastica cominciò presumibilmente con l'assegnazione di un canonicato a Bologna, dove dal 1236 rivestì la carica di arcidiacono. Papa Gregorio IX aveva per lui una particolare predilezione: non solo lo nominò suddiacono e cappellano pontificio, ma nel 1240 gli affidò anche l'amministrazione della diocesi di Bologna, dopo che il capitolo lo aveva proposto quale vescovo. Ma non avendo ancora raggiunto l'età canonica di trent'anni, non poté essere ordinato.

   Nel maggio 1244 papa Innocenzo IV nominò il giovane chierico cardinale diacono di S. Maria in Via Lata. Nell'autunno dello stesso anno O. prese parte al viaggio della Curia a Lione e presenziò al concilio che deliberò la deposizione di Federico II. Nel marzo 1247 fu nominato legato in Lombardia e Romagna, per organizzare insieme a Gregorio da Montelongo, attivo già dal 1238, la difesa contro l'imperatore in Italia settentrionale. Un primo tentativo di far valicare le Alpi a truppe provenienti da nord naufragò nella primavera-estate del 1247 di fronte alla resistenza del conte di Savoia, alleato di Federico II. Nell'agosto 1247, da Milano, O. riunì un esercito arruolato in tutta l'Italia settentrionale contro re Enzo ed Ezzelino da Romano per sbloccare l'assedio di Parma, ma non osò attaccare e alla fine dell'autunno le sue truppe si dispersero. Dopo la vittoria dei parmensi sotto il comando di Gregorio da Montelongo sull'accampamento imperiale fortificato di Vittoria (18 febbraio 1248) anche O. si mise di nuovo all'opera e, con l'aiuto di un esercito reclutato tramite Bologna, nel giugno del 1248 era riuscito a riportare dalla parte del papato le città di Forlì, Cesena, Imola, Ravenna e Faenza in Romagna. Nella seconda metà dell'anno compì un'operazione analoga in Emilia.

   Trascorse gran parte del 1249 a Bologna cercando di consolidare le conquiste.

    Nella primavera del 1250 lo troviamo a Venezia e a Ferrara, per organizzare la difesa contro Ezzelino da Romano, e in seguito, di fronte agli insuccessi del legato Pietro Capocci nelle Marche, che minacciavano anche Parma e Piacenza, fu impegnato ad assicurare queste città alla causa papale. Anche dopo la morte dell'imperatore il 13 dicembre 1250 la situazione non mutò, con coalizioni alterne e cambiamenti di fronte, finché nel giugno 1251 a Genova O. rassegnò il suo mandato a papa Innocenzo IV di ritorno dalla Francia. Già nel novembre dello stesso anno tuttavia gli fu affidato nuovamente l'ufficio di legato per la Lombardia, la Romagna e il patriarcato di Aquileia, questa volta senza la concorrenza di Gregorio da Montelongo che dall'ottobre 1251 era patriarca di Aquileia.

  Nel marzo 1252 il cardinale fece di nuovo giurare a Brescia la Lega lombarda in vista della difesa contro Corrado IV e i sostenitori degli Svevi e prese provvedimenti di carattere militare. L'esito della prima prova gli fu sfavorevole, poiché il margravio Uberto Pallavicini riuscì ad assediare con successo Rivergaro in autunno, senza che O., ostacolato dalla mancanza di mezzi e dal suo carattere irresoluto, avesse sferrato un attacco decisivo. Il registro delle lettere del cardinale fornisce informazioni dettagliate su questi mesi. Innocenzo IV lo dispensò dal suo ufficio di legato; Salimbene da Parma riferisce della profonda irritazione del papa. Troviamo di nuovo il cardinale alla Curia di Perugia nel febbraio 1253. Dopo la morte di Innocenzo IV fu uno dei compromissari incaricati dagli altri cardinali dell'elezione del nuovo papa, Alessandro IV. Già poche settimane più tardi, nel gennaio 1255, ricevette l'incarico di collaborare alla riorganizzazione del Regno di Sicilia dopo la morte di Corrado IV.

  Essendo già legato, si trattenne comunque alcuni mesi alla Curia di Napoli e lì assistette alla scomunica solenne di re Manfredi e all'assegnazione del Regno al principe inglese Edmondo. Alla testa di un esercito, in giugno, O. avanzò su Benevento, ma anche questa volta non si giunse alla battaglia decisiva contro l'esercito di Manfredi a S. Angelo dei Lombardi a causa delle esitazioni del cardinale. La conclusione di una tregua consentì all'esercito pontificio di spostarsi verso la Puglia e di occupare Foggia, ma Manfredi dopo un breve assedio riuscì a ottenere dal cardinale, in cambio del ritiro delle truppe pontificie, un trattato che rappresentava una soluzione della questione siciliana a favore di Manfredi e di Corradino. Ma Alessandro IV lo rifiutò e O. dovette tornare in Curia nell'agosto 1255. A fine anno lo troviamo di nuovo in Terra di Lavoro. Il suo incarico come legato si concluse nel marzo dell'anno seguente. Più volte fu espresso il sospetto di una sua segreta collaborazione con Manfredi.

  In seguito, fino alla morte di Alessandro IV nel 1261, O. si trattenne in Curia, come si deduce da numerose sottoscrizioni di privilegi papali. In questo periodo fu nominato cardinale protettore dei Camaldolesi e dei Vallombrosani. Sotto il pontificato di Urbano IV, O. risiedette sempre alla Curia pontificia, senza che gli fossero affidati incarichi importanti. Un registro dei processi da lui istruiti, dal 1257 al 1264, lo mostra impegnato soprattutto nella giurisdizione curiale.

  Sotto il pontefice francese Clemente IV il cardinale sembra aver riconquistato il suo peso politico. Trascorse il lungo periodo di vacanza della Sede Apostolica insieme agli altri cardinali a Viterbo e fu tra gli elettori di papa Gregorio X. Dopo aver accompagnato quest'ultimo a Roma, morì fra il 5 e il 13 marzo 1272. Fu sepolto nella pieve di S. Maria in Fagna nel natio Mugello.

[foto 1:  Il Cardinale ritratto da Cristifano dell'Altissimo (1525-1605); foto 2: Il sigillo personale del Cardinale. Sotto l'immagine della Madonna con Bambino, la figura in posizione di supplica è lo stesso Cardinale. La scritta: S(igillo) OTTAVIAN(I) SANCTE MARIE. VIA LATA DIACON(I) CARD(INALIS); foto 3:  Il Cardinale rappresentato alla battaglia di Fossalta (1249) con le insegne degli Ubaldini. La battaglia, svoltasi tra i Guelfi comandati dal Cardinale e i Ghibellini guidati da Re Enzo filgio dell'imperatore Federico II]



Ruggieri degli Ubaldini (Mugello - Pisa, 1295)

   Nacque nella potente famiglia mugellana degli Ubaldini, figlio di Ubaldino della Pila e nipote del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, suo zio. Iniziò la carriera ecclesiastica presso la curia arcivescovile di Bologna, poi nel 1271 fu chiamato dai ghibellini ravennati come arcivescovo, accanto ad un altro prelato nominato dai guelfi. I contrasti tra i due però convinsero il Papa ad escludere entrambi. Nel 1278 divenne arcivescovo di Pisa, città allora retta dai guelfi Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti. R. si insediò proprio quando iniziavano i conflitti tra i due e inizialmente cercò di favorire i ghibellini, anche se presto, fingendosi amico di Nino, li mise l'uno contro l'altro riuscendo a sbarazzarsi di entrambi. Guidò la rivolta che portò alla deposizione del conte Ugolino insieme con le famiglie dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi. Secondo la versione di un cronista contemporaneo, che Dante segue, egli avrebbe fatto prigioniero Ugolino con il tradimento: certo è che lo fece imprigionare nella Torre della Muda insieme a due figli e due nipoti, nella quale essi morirono.

   Probabilmente per questo motivo, o per il tradimento del Visconti, Dante lo collocò tra i traditori politici del suo Inferno. Anche papa Niccolò IV lo rimproverò aspramente e gli inviò una condanna per la sua condotta spietata contro Ugolino e i guelfi, ma il sopraggiungere della morte del pontefice impedì una qualsiasi ritorsione su di lui.

   Dopo la morte di Ugolino, nel 1289 R. si fece nominare podestà di Pisa, ma fu incapace di reggere alla lotta che gli aveva dichiarato il Visconti e dovette rinunciare al suo ufficio. Continuò a vivere nella sua arcidiocesi, conservandone il titolo, fino alla sua morte che avvenne nel 1295 a Viterbo, dove si era recato da poco. La sua tomba, poi scomparsa, venne collocata nel chiostro del monastero annesso alla chiesa viterbese di Santa Maria in Gradi.

   R. compare nel canto XXXIII dell'Inferno di Dante, nella seconda zona del nono cerchio, nell'Antenora ove sono puniti i traditori della patria, venendo citato come antagonista del celebre conte Ugolino della Gherardesca. Per il suo comportamento in vita, ha l'aggravio della pena di avere Ugolino che gli rode il cranio in eterno, per aver condannato quattro innocenti a morire con un colpevole. La sua figura nel poema è completamente muta e assente, tanto da sembrare pietrificata nel suo supplizio.

[foto: la cattura del Conte Ugolino della Gherardesca da parte dei soldati dell'arcivescovo Ruggeri, con sugli scudi le insegne degli Ubaldini

(tratto dal "Villani illustato"].


Ubaldino della Pila (1205/10-1288/89)

     Figlio secondogenito di Ugolino di Albizzo (1296-1228) e probabilmente di Adala (1218-1226), è documentato per la prima volta nel 1217 come minorenne (età inferiore ai 14 anni), quando il padre stipula il contratto matrimoniale per il figlio maggiore Azzo (della Pila), anch’esso minorenne. 

     Morti padre (1228) e fratello maggiore (fra il 1231 e il 1235), Ubaldino assume la guida della casata degli Ubaldini da Montaccianico, che manterrà fino alla morte, assieme al fratello minore,  il Cardinale Ottaviano, e al nipote Ugolino da Senni.

     Nel 1238-39 Ubaldino ricopre la carica di podestà di Borgo S. Lorenzo, incaricato dal vescovo di Firenze Ardingo di ristabilire l’autorità della Chiesa fiorentina nei confronti dei riottosi borghigiani.

     Nel 1246 con il nipote Ugolino da Senni e i cugini Ugolino e Azzo da Montaccianico riceve il privilegio imperiale da Federico II, con il quale l'Imperatore conferma loro tutti i beni.

     Nel corso degli anni '40 Ubaldino avvia una notevole attività di espansione del dominio familiare in Mugello e nell'alta Valle del Santerno.

     Nell'estate 1251, a seguito alla morte dell’Imperatore (dicembre 1250), Ubaldino fa aderire la Casata alla Lega Ghibellina Toscana (assieme alle città di Pistoia, Pisa, Siena, e Arezzo), per contrastare le mire egemoniche della Firenze guelfa.

     Attorno al 1254, a seguito della vittoriosa campagna militare delle milizie fiorentine in Mugello (settembre 1251), Ubaldino, per bloccare le rivendicazioni di Firenze sui castelli ubaldini, è costretto a cedere nominalmente la titolarità della signoria al cardinale Ottaviano, che essendo un principe ecclesiastico è "intoccabile" anche per Firenze.

     Con la vittoria ghibellina a Montaperti del 1260,  Ubaldino e il nipote Ugolino, oltre a riottenere il pieno possesso anche formale della titolarità della signoria, entrano anche nei consigli cittadini del nuovo governo ghibellino di Firenze.

      A seguito del ritorno al potere dei guelfi a Firenze nel 1267, il Cardinale Ottaviano assume di nuovo  la titolarità della signoria familiare e la mantiene fino alla morte nel 1272. Ubaldino, venuto meno il fratello, riprende le redini della casata per quasi un decennio durante il quale ospita nel palazzo di Santa Croce (oggi Scarperia), per tutta l’estate del 1273, papa Gregorio X con il collegio cardinalizio.

      Alla fine degli anni '70, data l’età avanzata, Ubaldino è costretto a cedere il ruolo di comando della Casata ai figli, che lo rappresentano negli atti ufficiali, come in occasione della cosiddetta “Pace del cardinale Latino”, che nel 1280 sancisce la temporanea fine del conflitto tra guelfi e ghibellini a Firenze, e alla quale aderiscono anche le grandi casate del contado.

      Documentato un’ultima volta nel luglio del 1288, di Ubaldino non si hanno più notizie, e nel maggio del 1289 risulta dececeuto.

      Durante la sua lunga vita ebbe sei figli maschi e almeno due femmine: il primogenito Azzo(ne), documentato dal 1254 e già deceduto nel 1274, è padre di Tano da Castello; Ugolino di Filiccione documentato dal 1262 e scomparso fra il 1302 e il 1305;  Cavrennello, morto nel 1282;  Ottaviano, dal 1259 canonico e dal 1261 al 1295 vescovo di Bologna; Ruggeri, canonico di Bologna e poi arcivescovo di Pisa; Schiatta, canonico bolognese già nel 1257, succede al fratello come vescovo di Bologna dal 1295 al 1299; Selvaggia andata in sposa nel 1267 a Bindo di Buonaccorso degli Adimari.

       Nonostante i numerosi figli avuti, non sono note le mogli di Ubaldino.

 

Ubaldino della Pila nelle fonti letterarie

Compare nella Commedia, tra i Golosi nel Purgatorio, c. XXIV, vv. 28-30:

Vidi per fame a voto usar li denti

Ubaldin dalla Pila e Bonifazio

che pasturò col rocco molte genti

Inoltre appare protagonista in una novella di Franco Sacchetti de Il Trecentonovelle, n. CCV:

Messer Ubaldino dalla Pila fa tanto dell’impronto con uno Vescovo, che fa licenziare al Vescovo che uno suo ortolano si faccia prete, e vienli fatto.

                                                                         

       

 

Ugolino da Senni (1225 - 1293) 

     Figlio di Azzo della Pila e di Azzolina (figlia di Guidotto dei Malavolti, esponente di una famiglia signorile della montagna bolognese), appare per la prima volta in un documento nel 1238 assieme al fratello minore Ubaldino, nel quale entrambi risultano essere minorenni e posti sotto la tuela dello zio Ubaldino della Pila.   

     Raggiunta la maggiore età attorno al 1240, accompagna lo zio Ubaldino in ogni sua attività relativa alla gestione della signoria. Ugolino è presente in tutti gli atti ufficiali che riguardano la politica della Casata degli Ubaldini da Montaccinaico, quali il privilegio imperiale del 1246, l’adesione alla Lega Ghibellina nel 1251, la partecipazione ai consigli cittadini del nuovo governo ghibellino nato a Firenze dopo la battaglia di Montaperti.

     Dal 1260 al 1266, collabora  con il vicario generale in Toscana di re Manfredi, il conte Guido Novello dei conti Guidi, come risulta da un atto del 1263.

     Con la morte del cardinale Ottaviano nel 1272, Ugolino si rende patrimonialmente indipendente dallo zio Ubaldino:  zio e nipote danno  vita a una divisone dei beni della Casata, e Ugolino eredita la suntuosa residenza di Santa Croce, presso Scarperia, che elegge a sua dimora prediletta. La divisione patrimoniale non comporta però la divisione politica della signoria, la cui gestione rimane salda e unitaria.

     A partire dal 1280 Ugolino, con l'intento di stringere allenze politiche e incrementare i possedimenti dalla Casata, avvia un’attiva politica matrimoniale sposando i propri figli coi rampolli dei conti Guidi del ramo di Battifolle e dei Pagani da Susinana. 

     Di Ugolino sono note due mogli: Bolognisia, figlia di Guido dei Geremei di Bologna, dalla quale ha il figlio Giovanni da Montaccianico (documentato dal 1280 e morto nel 1337);  Beatrice, figlia di Galvano conte di Lancia, cugina di Manfredi di Svevia re di Scilia, con la quale risulta essere sposato già nel 1271 e dalla quale ha altri due figli Francesco (1285-1325) e Ottaviano (1285-1302).

     Nel 1286 Ugolino fa testamento e il 10 di gennaio 1293 vi appone un codicillo in merito alla tutela dei figli minori Francesco e Ottaviano; questo è il suo ultimo atto che lo documenta in vita.

      Il 7 di febbraio 1293 risulta già morto.


Ugolino da Senni nelle fonti letterarie

Un Ugolino di Azzo compare nella Commedia, nel Purgatorio, c. XIV, vv. 103-105:

Non ti maravigliar, s’io piango, Tosco,

quando rimembro con Guido da Prata

Ugolin d’Azzo che vivette nosco.

                                                                                   


CAVALIERI FIORENTINI

 

Manete degli Uberti, "Farinata" (1212 - 1264)

   Nobile ghibellino esponente di una delle famiglie fiorentine più antiche e importanti. Dal 1239 fu a capo della consorteria ghibellina, e svolse un ruolo importantissimo nella cacciata dei guelfi da Firenze avvenuta nel 1248 sotto il regime del vicario imperiale Federico d'Antiochia.

   Nel 1251, con il ritorno al potere dei Guelfi e l’inizio della guerra tra Firenze e la Lega Ghibellina (guerra durante la quale Firenze invase il Mugello e attaccò il castello di Montaccianico), Farinata e tutti gli altri notabili ghibellini furono esiliati da Firenze. Nel romanzo Farinata compare più volte come alleato degli Ubaldini e protagonista della Lega Ghibellina.

   Farina e gli altri ghibellini fiorentini poterono tornare a Firenze solo nel 1260, a seguito della vittoriosa battaglia di Montaperti.

   Nella dieta di Empoli che ne seguì, Farinata dimostrò il suo grande amor di patria, opponendosi alla proposta dei suoi alleati ghibellini, tra cui gli Ubaldini, di radere al suolo la città di Firenze.
   «E nel detto parlamento tutte le città vicine, e' conti Guidi, e' conti Alberti, e que' da Santafiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d'intorno proposono e furono in concordia per lo migliore di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Firenze, e di recarla a borgora, acciocché mai di suo stato non fosse rinomo, fama, né podere. Alla quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli liberti (…)» (Giovanni Villani - Nuova Cronica, Libro VI, Capitolo LXXXI)-

    Nel romanzo compare più volte come capo dei Ghibellini toscani e referenti degli Ubaldini a Firenze.



Cavalcante de' Cavalcanti (1220-1280)

     Nobile fiorentino esponente di spicco dei Guelfi, è ricordato come padre del poeta Guido de’ Cavalcanti e spirito razionalista (Dante lo menziona nell’Inferno tra gli epicurei).

     Nel romanzo compare quale comandante delle milizie fiorentine che nell’estate 1251 invasero il Mugello e attaccarono Montaccianico.

      Le figure rappresentano: a) matrice di sigillo, Museo Nazionale del Bargello, Firenze; b) ricostruzione grafica di E. T. Coelho dal libro "Il sabato di S. Barnaba".




UOMINI DI CHIESA

 

papa Innocenzo IV    (1190 - 1254)

  La famiglia paterna era una delle più potenti della costa orientale della Liguria. I conti di Lavagna dominavano su una contea attestata fra la Liguria orientale e l'Appennino parmense e controllavano così il transito appenninico lungo l'asse del passo delle Cento Croci. Le più antiche tracce di una vera e propria ascesa della famiglia risalgono alla seconda metà del XII secolo. Il 13 marzo 1174 i conti, fra i quali il capostipite dei Fieschi, Ruffino, con i figli Ugo e Guirardo, giurarono la pace con il Comune di Genova e ottennero in cambio la restituzione del feudo. Secondo la tradizione, Ugo avrebbe sposato una figlia di Amico Grillo. Ugo è il primo membro della casata che si fece chiamare Fieschi ("de Flesco"), un nominativo che sembra indicare la professione (appaltatore del fisco imperiale) e che avrebbe comunque finito per diventare un cognome.

Dei fratelli di Ugo, due (Tedisio e Guirardo) erano laici e morirono senza eredi; Obizzo (Opizone), Alberto e Ibleto intrapresero invece la carriera ecclesiastica, forse sulle orme di quel Manfredo, cugino del padre di Ruffino, che venne creato cardinale nel 1163 e coprì fino alla morte (1177) importanti incarichi sia in Curia sia come legato. Gli zii ecclesiastici di Sinibaldo acquistarono posizioni di rilievo entro lo stesso ambito geografico su cui si estendeva il dominio familiare.

Le sorti della famiglia ricaddero sulle spalle del padre di Sinibaldo, Ugo "Fliscus", che riuscì ad accrescere notevolmente il proprio rilievo politico. Secondo Salimbene (Ognibene) de Adam, Ugo ebbe almeno tre figlie e ben cinque (o sei, secondo altri) figli, fra cui Tedisio. Come nella generazione precedente, tre dei figli di Ugo abbracciarono lo stato ecclesiastico: cioè Rubaldo, Ruffino e Sinibaldo. Quest'ultimo, che è generalmente ritenuto il più giovane dei fratelli, fu comunque il più longevo. Le attestazioni che riguardano Rubaldo e Ruffino giungono infatti soltanto fino al 1231.

La data di morte di Ugo si colloca dopo il 1201 e prima del 2 marzo 1214; Sinibaldo era quindi ancor giovane quando morì il padre. Fu dunque forse a causa della sua condizione di orfano se Sinibaldo trascorse quasi tutta la giovinezza a Parma, sotto la guida di uno zio, il vescovo Obizzo.

Da Parma il giovane Sinibaldo andò a studiare diritto a Bologna. Il periodo bolognese può essere situato entro un arco di tempo che va dall'autunno-inverno 1213 al 5 dic. 1223, data alla quale porta il titolo di magister. È un'ipotesi, questa, che si basa sulla sinossi delle date di docenza dei professori bolognesi che Sinibaldo avrebbe avuto come maestri, stando alle affermazioni di Diplovatazio. La decisione di Obizzo di attribuire a Sinibaldo un canonicato a Parma, un titolo attestato per la prima volta nel 1226, deve molto probabilmente essere messa in relazione con la conclusione degli studi a Bologna.

Il 5 dic. 1223 Sinibaldo aveva non soltanto il titolo di magister, ma anche quello di suddiacono papale, fatto che fa pensare che durante il periodo bolognese egli avesse avuto modo di stabilire rapporti personali con la Curia romana e con Ugolino dei conti di Segni, futuro papa con il nome di Gregorio IX.

Tre anni dopo la prima attestazione di legami con la Curia, Sinibaldo fu a Roma. Nella Curia romana ricoprì l'ambita funzione di auditor litterarum contradictarum. È un inizio di carriera curiale di grande prestigio, che conobbe, subito dopo l'elezione di Gregorio IX, una nuova tappa: prima del 31 maggio 1227 Sinibaldo venne infatti nominato vicecancelliere della Chiesa romana. Ma già il 18 settembre di quello stesso anno Gregorio IX lo creò cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina insieme con un altro cardinale "lombardo" (Goffredo da Castiglione, poi Celestino IV). Nell'ottobre 1234 venne nominato dal papa rettore della Marca di Ancona: è ben documentata una sua missione del 17 ott. 1235 nella zona di Collepergola; attorno alla metà del giugno 1239 Sinibaldo si trovava ancora a Rimini dove da fine maggio fomentava la defezione di Ravenna, guidata da Paolo Traversari con il sostegno dei Bolognesi. Sinibaldo occupò il rettorato almeno fino al 1240, quando il papa lo rivolle a Roma "per negozi ardui et urgenti".

Roma era assediata da Federico II e, in questo quadro drammatico, la Curia si preparava a convocare un concilio che lanciasse nuovamente la scomunica contro l'imperatore. Per consentire l'operazione, Genova assunse parte dell'onere del trasporto di un gruppo di prelati; sulle sue navi il 25 apr. 1241 i padri del futuro concilio vennero assaliti dalla flotta imperiale e catturati al largo dell'isola del Giglio il 3 maggio. Il biografo di I. IV, Niccolò da Calvi, sembra confermare che Sinibaldo non fu estraneo al progetto di convocare il concilio, disegno che naufragò nell'alto Tirreno.

Il 25 giugno 1243 Sinibaldo fu eletto papa, assumendo il nome di Innocenzo IV, in seguito a una lunga vacanza della Sede apostolica, protrattasi dalla morte di Gregorio IX avvenuta il 21 ag. 1241. Federico II, che non aveva liberato i cardinali da lui fatti prigionieri nel 1241, salutò la notizia dell'avvenuta elezione con "gaudio magno". Il papa entrò a Roma il 20 ott. 1243. Il 28 maggio dell'anno successivo I. IV procedette alla nomina di dieci nuovi cardinali. L'imperatore e il papa avrebbero dovuto incontrarsi a Narni il 7 giugno 1244, ma questa volta fu il pontefice a decidere di fuggire da Roma. Una nave genovese lo condusse a Genova, dove cadde malato (luglio-ottobre). In autunno varcò le Alpi in direzione di Lione, città imperiale in prossimità del Regno di Francia, lontana dai conflitti italiani, che offriva perciò facili possibilità di accesso.

Tre settimane dopo il suo arrivo a Lione, il 27 dicembre, I. IV convocò un concilio per la festa di S. Giovanni dell'anno successivo. Una convocazione fu indirizzata ugualmente all'imperatore. Per la prima volta, i maestri generali degli ordini mendicanti erano invitati a un concilio generale. Gli affari di Roma e del Patrimonio erano affidati a quattro cardinali (Rinaldo di Ienne, futuro Alessandro IV, Stefano Conti, Riccardo Annibaldi e Raniero Capocci), tutti di origine romana o almeno laziale.

Tre mesi prima dell'apertura del concilio (13 apr. 1245), il papa rinnovò la scomunica contro Federico II e suo figlio, il re Enzo. Un ultimo tentativo (maggio 1245) del patriarca di Antiochia Alberto, amico dell'imperatore e che godeva di un prestigio indiscusso in seno alla Curia romana, per riavvicinare il papa e l'imperatore svanì di fronte alle esitazioni di Innocenzo IV.

Se il IV concilio Lateranense si impose per il suo poderoso programma legislativo, il primo concilio di Lione va ricordato soprattutto per i problemi politici che fu chiamato ad affrontare. Scomunicando Federico II, Gregorio IX aveva lasciato intravedere l'idea che soltanto un concilio avrebbe potuto tentare di risolvere il conflitto con l'imperatore. Convocato due anni più tardi, il concilio non poté aver luogo, sia per le rappresaglie dell'imperatore sia per la morte del papa.

Il concilio di Lione tenne una sessione preliminare il 26 giugno 1245 nel refettorio della collegiata di S. Giusto. Il pontefice pronunciò un discorso sui "dolori del papa": la corruzione morale, l'insolenza dei Saraceni, lo scisma con la Chiesa greca, i problemi dell'Impero latino d'Oriente, la minaccia dei Tartari e, naturalmente, la persecuzione della Chiesa da parte dell'imperatore. Contro Federico II il papa rinnovò le accuse tradizionali di violazione del giuramento, di sospetto di eresia e di sacrilegio.

Tra la prima e la seconda sessione (5 luglio), al fine di provare la legittimità della sua azione, I. IV fece copiare tutti i privilegi e tutti gli atti favorevoli alla Chiesa romana, promulgati nel corso dei secoli precedenti da imperatori e re. Novantuno documenti furono così copiati (si tratta dei cosiddetti transumpta di Lione), dal privilegio di Ottone I a quelli di Federico II (ben trentacinque). Questa raccolta, munita dei sigilli di quaranta prelati, fu presentata alla terza sessione del concilio (17 luglio), non mancando di suscitare reazioni. I vescovi inglesi protestarono contro l'inserimento nei transumptadell'attestazione di Giovanni Senzaterra che poneva il suo Regno sotto la sovranità apostolica. Il rappresentante dell'imperatore, Taddeo da Sessa, grande giudice alla corte imperiale, affermò che la convocazione del 27 dic. 1244 non era valida, protestò contro l'autenticità di certi privilegi e annunciò la sua decisione di fare appello contro la condanna nell'ambito di un futuro concilio. Come risposta, il papa fece leggere all'assemblea la bolla di deposizione di Federico II, intonò subito dopo il Te Deum e chiuse così la terza e ultima sessione del concilio.

I. IV decise di ritardare la pubblicazione dei canoni conciliari per apportarvi alcune correzioni e aggiunte; egli stesso ne fece del resto un commento, nel suo Apparatus. La diffusione dei canoni conciliari approfittò dell'esistenza, ormai consolidata, delle collezioni di decretali. Ventitré decreti completarono il Liber extra di Gregorio IX e furono ripresi, a eccezione del secondo e con estratti della bolla di deposizione Ad apostolicae dignitatis, dal Liber sextus di Bonifacio VIII.

Nel 1245, a Lione, I. IV istituì uno Studium generale che aveva il compito di seguire le peregrinazioni della Curia romana. Gli insegnanti e gli studenti avrebbero goduto degli stessi privilegi dei loro colleghi negli Studia generalia.

Il termine Studium generale era già stato usato da canonisti importanti (Goffredo da Trani, Bernardo da Botone), ma non da un'autorità come il Papato; per di più mai prima di allora lo Studium di Parigi era stato indicato come un modello. Scuole private di diritto, sia civile sia canonico, esistevano già prima in seno alla Curia romana. Anche dopo l'istituzione dello Studium Curiae le scuole di diritto continuarono a funzionare su basi private.

In occasione della visita effettuata da I. IV a Cluny (1246), i cardinali portarono per la prima volta il cappello rosso che il papa aveva loro concesso un anno prima, in occasione del primo concilio di Lione.

Lione era diventata "meta di fedeli giunti da ogni parte del mondo", ossia un'altra Roma ("Roma altera"), secondo le espressioni di Niccolò da Calvi. Ma lo stesso pontefice aveva stabilito un'identificazione esplicita tra i "limina" degli apostoli romani (Pietro e Paolo) e l'ubicazione del papa. Per "limina" degli apostoli, egli intendeva "dove è il papa" ("ubi papa est"). Nessuno prima di lui si era spinto così lontano. La frase di Niccolò da Calvi sull'"altra Roma" è testimonianza importante per comprendere come nel corso del Duecento la persona del papa sia riuscita ad attrarre spazialmente il legame con Roma. Roma non è dunque più a Roma, ma "dove è il papa".

Subito dopo essere giunto a Lione, I. IV donò una Rosa d'oro a Raimondo Berengario V, conte di Provenza, come sappiamo da una bolla con cui lo stesso I. IV concesse indulgenze ai fedeli che avrebbero visitato la tomba di Raimondo nella chiesa di St-Sauveur a Aix-en-Provence, alla quale il conte aveva consegnata quella stessa Rosa d'oro. I. IV donò una Rosa d'oro anche ai canonici di St-Just di Lione, come segno di gratitudine per l'ospitalità ricevuta durante il suo lungo soggiorno in quella canonica.

Sempre a Lione, il 13 maggio 1250, il cardinale Giovanni Gaetano Orsini lesse in concistoro, quasi d'improvviso, un memorandum che il grande studioso inglese e vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta, aveva poc'anzi consegnato a tre cardinali e allo stesso Innocenzo IV.

Il testo riveste una notevole importanza di carattere storico perché contiene una delle più severe denunce della politica curiale che siano state pronunciate a un così alto livello fino a investire, nella sua critica, anche la persona del sommo pontefice (cfr. Southern; Paravicini Bagliani, 1994).

Aperto al mondo grazie alla sua origine sociale e geografica, I. IV si interessò ad accrescere le conoscenze, soprattutto per quanto riguarda i Tartari e l'Estremo Oriente, e mise perciò in moto un'ampia azione diplomatica. A Lione, alla corte di I. IV, l'Occidente poté avere, per la prima volta, informazioni di prima mano sui Tartari, grazie a un certo arcivescovo Pietro, un prelato proveniente verosimilmente dalla Russia, e al cappellano del cardinale Giovanni da Toledo, Ruggero da Torrecuso, fatto prigioniero dai Mongoli nel 1241-42 e autore di una delle fonti più importanti sull'invasione dei Tartari in Ungheria, il Carmen miserabile super destructione Regni Hungariae. Il papa pensò di inviare due ambasciate e ne incaricò Lorenzo di Portogallo (che conosciamo soltanto tramite la missiva del papa) e Giovanni da Pian del Carpine. Questi, inviato nel cuore dell'Asia, partì da Lione il 16 apr. 1245 dove ritornò due anni dopo. I. IV affidò altre missioni agli ordini mendicanti. Il ministro generale dei francescani, Giovanni da Parma, fu incaricato di recarsi nel 1249 alla corte di Giovanni III Duca Vatatze, imperatore bizantino di Nicea, per convincerlo a ritirare il suo sostegno a Federico II, di cui era genero, e per sondare la possibilità di aprire negoziati di pace e di unione. Nel quadro di un'azione diplomatica e missionaria di grande impegno, I. IV inviò nel Maghreb uno dei suoi principali consiglieri, il francescano spagnolo Lope Fernandez de Ayn. Munito di poteri plenipotenziari, questi doveva tentare di negoziare con il califfo la concessione della libertà di culto e l'attribuzione di un certo numero di luoghi per facilitare ai cristiani, in caso di conflitto e di pericolo, l'organizzazione del ritorno nel loro paese d'origine.

Nel 1215 il IV concilio Lateranense aveva sanzionato ufficialmente la concessione di un'indulgenza plenaria ai crociati, non senza esprimere il timore per i pericoli che il ricorso eccessivo alle indulgenze avrebbe comportato nelle pratiche penitenziali. I. IV concesse invece l'indulgenza plenaria alle vedove e ai procuratori dei crociati. Nel 1249 volle che dieci giovani studenti si recassero a Parigi per apprendere l'arabo e altre lingue orientali.

Dopo Gregorio IX anche I. IV fu indotto a intervenire, non di propria iniziativa ma su domanda del cancelliere e dei dottori reggenti dell'Università di Parigi, nella questione del Talmud che era esplosa con rara violenza verso la metà degli anni Trenta, in seno allo Studium.

Secondo I. IV, il Talmud conteneva "affabulazioni inestricabili e manifeste" relative a Maria ed espressioni blasfeme nei confronti del "vero Dio e Cristo", ed era perciò condannabile. Il papa intimò al cardinale legato Odone di Châteauroux che, dopo un esame da parte sua, il Talmud avrebbe dovuto essere tollerato nelle parti che non contenevano ingiurie alla fede cristiana. Il cardinale legato capovolse però la posizione del papa affermando che questi libri "erano così pieni di affermazioni controverse da non poter essere tollerati senza pericolo per la fede cristiana", e decise di non restituire questi "libri intollerabili" ai rabbini ma di condannarli ufficialmente. I. IV non prese alcuna decisione per estendere l'inchiesta al di là di Parigi e non fece appello a nessun altro sovrano, al di fuori di Luigi IX.

Il viaggio di ritorno di papa Fieschi da Lione a Roma (1251) si trasformò in un trionfo, che Salimbene racconta in modo assai suggestivo; in particolare nel corso della sua permanenza a Genova I. IV assistette, insieme con molti prelati, alle sfarzose nozze di un suo nipote.

Verso la metà del secolo, allorché esplose il conflitto tra i maestri secolari e mendicanti (1253-59), il papa, dopo qualche esitazione, finì per prendere posizione a favore di questi ultimi. Il prestigio dei frati in seno alle scuole parigine e le loro posizioni teologiche ottenevano così un riconoscimento ufficiale del massimo livello. Nel mese di aprile 1253 i maestri secolari avevano deciso di non accettare più nessuno nella loro corporazione che non avesse dapprima prestato giuramento ai loro Statuti. Questa misura mirava a eliminare i maestri domenicani e francescani. Il 1° luglio 1253 il papa, operando un voltafaccia spettacolare, ordinò ai maestri secolari di accettare i maestri degli ordini mendicanti. Nel 1254, però, I. IV, desiderando "governare in modo che nessun critico curioso trovasse nulla da ridire", si dichiarò favorevole alle richieste dei secolari di dare assistenza finanziaria a Guglielmo di Saint-Amour e di imporre restrizioni agli ordini mendicanti.

I. IV fu uno dei più insigni papi giuristi del Medioevo centrale. Al momento della sua elezione, Sinibaldo stava componendo il suo capolavoro, il commento alle decretali di Gregorio IX, l'Apparatus in quinque libros decretalium, un'opera difficile, persino per i contemporanei (prima edizione Strasburgo 1478, Venezia 1481, 1491, 1495: cfr. L. Hain, Repertorium bibliographicum, 9191-9194, Venezia 1578; cfr. anche M. Bertram, Angebliche Originale des Dekretalenapparats Innocenz' IV., in Proceedings of the Sixth International Congress of Medieval canon law, Città del Vaticano 1985, pp. 41-47). La sua legislazione pontificia comprende tre collezioni di decretali. Le due prime avrebbero dovuto essere aggiunte al Liber extra, ma il papa preferì inviare allo Studium di Bologna un elenco definitivo e separato delle sue decretali ufficiali, che furono chiamate Novellae e conobbero una diffusione indipendente. La maggior parte fu incorporata in seguito nel cosiddetto Liber sextus (1298). Con la costituzione Ad extirpandam (1252), I. IV considerò legittimo l'uso della tortura nei processi dell'Inquisizione contro gli eretici.

Per I. IV la formazione canonistica è un tutt'uno con il suo governo. Sinibaldo e I. IV non possono essere disgiunti, dal momento che il giurista e il papa scrivono e agiscono secondo schemi analoghi. Il papa doveva assumere un ruolo di coordinamento generale, di istanza suprema - e dunque anche giudiziaria - della società cristiana. Sinibaldo è canonista e per questo il papa è il giudice e legislatore supremo che ha ricevuto da Dio l'incarico di spiegare e armonizzare il mondo, un mondo che egli identifica, sulla scia di Innocenzo III e dei papi del periodo gregoriano, con una Cristianità potenzialmente illimitata. È una visione di Papato che si fonda sul concetto che il mondo ha bisogno di un "regimen unius personae". Proprio per questo, I. IV si servì di una nascente diplomazia per ottenere una convivenza pacifica, premessa di una Cristianità coestesa "al cono d'ombra gettato sul mondo dalla potestà papale" (Melloni).

I. IV creò due dei suoi nipoti cardinali, uno dei quali, Ottobono Fieschi, diventò papa nel 1276 (Adriano V). Per cinquant'anni la famiglia genovese dei Fieschi fu presente senza interruzione nella Curia romana e fu dunque per l'intero Duecento la famiglia non romana meglio rappresentata in Curia.

Malgrado il suo lungo soggiorno a Lione (1245-51), I. IV lasciò una traccia importante nella storia edilizia vaticana. A nord della basilica vaticana Innocenzo III aveva fatto costruire soltanto edifici amministrativi. I. IV accentuò ancora la volontà del Papato di scegliere la collina del Vaticano come residenza pontificia, costruendo nei pressi della basilica di S. Pietro un palazzo e una torre e comprando dei vigneti.

I. IV morì a Napoli il 7 dic. 1254 e fu sepolto nell'antica cattedrale partenopea, distrutta nel 1294. All'inizio del XIV secolo l'arcivescovo Umberto d'Ormont (1308-20) fece trasferire la tomba nella nuova cattedrale. La tomba attuale è quasi interamente opera del Cinquecento, come anche il gisant.


 

Ottone Visconti (1207-1295)

     Nel romanzo abile camerlengo del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, fu il fondatore della dinastia viscontea a Milano.

     Nel 1262 Ottone, grazie all’intercessione del cardinale Ottaviano (di cui fu fido collaboratore dal 1247 per quindici anni) venne nominato arcivescovo di Milano, e da quella posizione, sconfitti i rivali Della Torre, divenne di fatto il signore della città.

     Nel 1287, Ottone, ormai vecchio, lasciò il potere al nipote Matteo Visconti, che fu nominato Capitano del Popolo, e quattro anni dopo Signore di Milano. Ottone riuscì a Milano dove il suo protettore Ottaviano degli Ubaldini fallì a Firenze, ovvero consegnare la signoria della città ai suoi familiari. 

 

frate Cesario da Spira (fine XII sec. - metà XIII sec.) 

     Nato in Germania alla fine del XII secolo, studia teologia a Parigi, per poi intraprendere la carriera ecclesiastica diventando suddiacono e famoso predicatore.  Uomo sensibile ai movimenti di rinnovamento religioso del tempo, è un ardente seguace della perfezione evangelica.

     Nel 1218 è crociato in Terra Santa dove conosce Frate Elia ed entra nell’Ordine francescano. Nel 1219 in Siria conosce personalmente Francesco, reduce dalla missione in Egitto. Tra i due si forma un saldo legame e nell’estate del 1220 Cesario segue Francesco in Italia, dove contribuisce alla redazione della Prima Regola dell’Ordine, ormai necessaria per disciplinare la moltitudine di fedeli che in tutta la Cristianità ha seguito l’esempio di Francesco. Si tratta della cd "Regola non bollata".

     Nel Capitolo del 1221 è formalmente approvata la Prima regola, Frate Elia è nominato vicario dell’Ordine al posto di Francesco (che ne rimane capo spirituale), e Cesario è posto alla guida della missione per diffondere l’Ordine francescano in Germania. La missione ha successo e in pochi anni l’Ordine mette salde radici.

     Nel 1223 Cesario rientra in Italia per incontrare Francesco e chiedere una grazia (che ottiene): potersi ritirare in un romitorio assieme a pochi confratelli e vivere in solitudine e contemplazione, osservando  senza tentennamenti e in tutta la sua purezza il Vangelo e la Regola originaria dell’Ordine (nel 1223 Frate Elia e il Cardinale protettore dell’Ordine Ugolino d’Ostia hanno infatti redatto e fatto approvare dal Papa una nuova versione della Regola, meno rigida e meno aderente al Vangelo, la cd "Regola bollata"). 

     Dopo la morte di Francesco (1226), Frate Elia non tollera più deviazioni e ostacoli al processo regolarizzazione dell’Ordine nell'alveo della Chiesa, e col sostegno papale punisce duramente tutti i confratelli che, richiamandosi agli insegnamenti di Francesco, chiedono un ritorno alle origini e alla purezza evangelica. In tale contesto, la scelta ascetica di Cesario di vivere in romitaggio secondo il Vangelo  è giudicata dai vertici francescani come una forma di dissenso, un'aperta minaccia alla compattezza della comunità. Cesario, tra l’altro, non è un frate qualsiasi, ma un teologo famoso con ampio ascendente tra i confratelli che giudicano il più santo di tutti dopo Francesco. Così Cesario è il primo ad essere preso di mira: Elia, a titolo di monito per tutti i dissidenti e gli zelanti della Regola originaria, ne ordina l’incarcerazione.

     Dopo pochi anni di carcere Cesario è dato per morto. Sulla sua morte aleggia però un fitto mistero. Secondo alcuni è ucciso per errore dal suo carceriere, che vedendolo fuori dalla cella e temendone la fuga, lo colpisce alla testa con un bastone. Secondo altri non si tratta di omicidio colposo: il carceriere non commette un errore, ma esegue un preciso ordine di Frate Elia. Altri ancora mettono in dubbio la suddetta dinamica della morte per bastonatura, ritenendo che altra fu la causa.
     Nel ROMANZO si aderisce alla terza soluzione: Cesario, con la complicità dei compagni, si fa credere morto e riesce a fuggire e far perdere le proprie tracce. Si nasconde in un romitorio del Mugello sotto le mentite spoglie di Frate Anselmo, per essere poi smascherato dall'inquisitore domenicano inviato dal Papa con le milizie fiorentine.     

[FOTO: i primi seguaci di San Francesco in occasione delll'approvazione papale della Regola dell'Ordine - Giotto, 1295-1300]



HOHENSTAUFEN E GHIBELLINI

 

Federico II di Svevia (1194-1250)

     Federico II Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250) fu re di Sicilia, Duca di Svevia, re di Germania e Imperatore del Sacro Romano Impero, e quindi precedentemente Re dei Romani, infine re di Gerusalemme (dal 1225 per matrimonio, autoincoronatosi nella stessa Gerusalemme nel 1229).

     Apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia.

     Conosciuto con gli appellativi stupor mundi ("meraviglia o stupore del mondo") o puer Apuliae ("fanciullo di Puglia"), Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l'attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male.

     Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volta a unificare le terre e i popoli, ma fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale. Federico stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi: la sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica.

     Uomo straordinariamente colto ed energico, stabilì in Sicilia e nell'Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con una amministrazione efficiente.[

     Federico II parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana. La sua corte reale siciliana a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, vide uno dei primi utilizzi letterari di una lingua romanza (dopo l'esperienza provenzale), il siciliano. La poesia che veniva prodotta dalla Scuola siciliana ha avuto una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. La scuola e la sua poesia furono salutate con entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, e anticiparono di almeno un secolo l'uso dell'idioma toscano come lingua d'élite letteraria d'Italia.

 

Federico d'Antiochia (1222-1256)

   Era figlio naturale dell'imperatore Federico II e di Maria (Matilde) d'Antiochia, appartenente a una nobile famiglia del Regno di Sicilia e figlia, forse, di Roberto d'Antiochia, dalla quale F. derivò il nome. L'anno preciso della sua nascita non è noto ma, considerato che quasi tutti i figli illegittimi nacquero nei periodi in cui l'imperatore non era sposato, si può presumere che essa avvenisse negli anni tra il 1222 e il 1224. Le leggende e la propaganda antimperiale che, probabilmente a motivo del nome della madre, vogliono F. nato in Palestina da una donna musulmana non meritano credito, com'è anche priva di fondamento la notizia secondo la quale F. sarebbe nato dalla relazione di Federico Il con Plaisance, figlia del principe Boemondo "le Borgne" di Antiochia. F. nacque invece sicuramente nell'Italia meridionale, dove trascorse la sua gioventù.

Oltre a un figlio nato dal matrimonio con la principessa inglese Isabella (o Elisabetta), la cui esistenza è stata messa in dubbio da alcuni studiosi (è ricordato in un unico documento, nel quale viene indicato soltanto con l'iniziale F.), due figli illegittimi dell'imperatore soltanto portano il nome tradizionale nella dinastia sveva: F., appunto, e Federico di Pettorano (nato verso il 1212-13 e morto dopo il 1240), a quanto pare il più anziano dei figli naturali di Federico II, con il quale F. non deve essere confuso. Federico di Pettorano, sebbene fosse nato da una donna di alto rango, discendente da una famiglia comitale normanna, sembra essere stato trascurato dal padre, dal quale ottenne, come magro appannaggio, solo il castello di Pettorano sul fiume Gizio presso Sulmona. Deluso dallo scarso interesse paterno, Federico di Pettorano sembra essersi lasciato coinvolgere in trame contro l'imperatore. Fuggi quindi alla corte di Federico III di Castiglia (che aveva sposato una figlia del re Filippo di Svevia), dove si perdono le sue tracce.

Tra il 1236 e il 1245 F. sposò Margherita Conti di Poli. Non è possibile stabilire la data esatta, ma il fatto che già nel 1258 il figlio Corrado sposò Beatrice Lancia, lascia pensare che il matrimonio dei genitori avvenisse verso il 1239-40. Margherita era figlia del nobile romano Giovanni Conti signore di Poli (era figlio di Riccardo, fratello di Innocenzo III) e varie volte senatore di Roma, il quale aveva proprietà allodiali e feudali nel Lazio e in Sabina (intorno a Poli, Guadagnolo, Saracinesco, Anticoli Corrado, Roviano, Arsoli, Camerata Nuova). Nel 1229-30 Giovanni Conti figura tra i seguaci di Federico II, il quale nel 1320 gli concesse, in cambio della contea di Fondi, quella di Albe, nei dintorni di Avezzano, più vicina alle sue proprietà. Il matrimonio di F. con la figlia del potente feudatario faceva parte della strategia con la quale l'imperatore cercava di legare alla propria persona gli esponenti della nobiltà romana oppositori del papa. Grazie alla dote e all'eredità di Margherita F. e i suoi discendenti vennero in possesso di importanti castelli e diritti signorili nel Lazio nordoccidentale e nell'Abruzzo, nel conteso territorio di confine tra il Patrimonio di S. Pietro e il Regno, e precisamente intorno all'antica via Valeria che nel Medioevo costituiva ancora un'importante via di collegamento.

Di tutti i figli naturali dell'imperatore F. fu una delle figure più affascinanti. Come il fratellastro Enzo, di poco più grande, era apprezzato dal padre come valente ed energico condottiero e amministratore. Nel contesto della riorganizzazione dell'Italia imperiale, iniziata nel 1237, fu incaricato, come altri figli e generi di Federico II, di importanti funzioni militari e amministrative, soprattutto nell'Italia centrale. La sua claudicazione non sembra essergli stata di impedimento nell'esercizio di queste funzioni.

Tra la fine del 1244 e l'inizio del 1245 F., allora poco più che ventenne, compare come vicario generale nella Marca d'Ancona. Dopo una breve permanenza presso l'esercito di Enzo (a Pontenure vicino a Piacenza), nel luglio 1245, a Cremona, il padre lo armò cavaliere. Tra il febbraio 1246 e fino al novembre 1248 è ricordato come vicario generale in Toscana e nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia ("in Tuscia et ab Amelia usque Cornetum et per totam Maritiman"). In seguito, fino alla fine del 1250, il suo vicariato comprendeva soltanto la Toscana, mentre la parte meridionale era amministrata da Galvano Lancia.

La Toscana con la città di Firenze, dove F. tra il 1246 e il 1250 esercitò anche le funzioni di podestà imperiale, era la regione imperiale più importante dell'Italia centrale, sia dal punto di vista militare sia da quello economico. F. esercitò i suoi ampi poteri con quella mescolanza di efficienza e di violenza che sembra fosse una sua caratteristica. Riorganizzò le tradizionali strutture dell'amministrazione imperiale, che ora comprendeva anche il contado di Firenze, in modo più funzionale e rigido, così da potere attingere direttamente alle risorse materiali e militari delle città toscane. I Comuni vennero costretti a fornire truppe sia per la guerra dell'imperatore nell'Italia settentrionale, sia per le spedizioni militari all'interno della Toscana, e sottoposti a continue richieste di denaro e di tasse: la più tartassata era Siena, per la quale la temporanea cessione delle miniere d'argento di Montieri nella diocesi di Volterra costituì un ben magro compenso. F. ordinò persino ai Comuni di richiamare gli studenti e i mercanti che risiedevano a Bologna ostile all'imperatore.

Nei confronti dei Fiorentini, ai quali Federico II aveva presentato il figlio come l'immagine di se stesso, e durante le campagne militari in Toscana F. usò la mano pesante. A Firenze di solito non esercitava personalmente la podesteria, ma la delegava a dei vicari. La città, lacerata da lotte intestine, era passata dalla parte dell'imperatore soltanto perché paralizzata sul piano politico. In un primo momento F. cercò di mediare tra le fazioni per ristabilire la pace, ma non vi riuscì. Non esitò quindi a destituire i capitani del Popolo simpatizzanti dei guelfi e li punì severamente, comportandosi alla stregua di un signore. Infine, all'inizio del 1248, bandì dalla città i guelfi e fece distruggere le case dei loro capi, che inseguì fin dentro le città e i castelli dove avevano cercato rifugio e aiuto.

Nella sua provincia F. esercitò il governo spostandosi continuamente, come del resto richiedeva la lotta contro gli avversari. Spesso si recava nelle maggiori città della sua provincia (a Siena, Prato, Arezzo) e nei centri tradizionali dell'amministrazione imperiale (San Miniato, Fucecchio, Borgo San Genesio, San Quirico d'Orcia, Poggibonsi); le sue campagne militari lo portavano anche più lontano- a Orbetello e Magliano (novembre-dicembre 1246), a Castiglione del Lago e Perugia (maggio-giugno 1247), nel contado di Orvieto (autunno 1247), in Lunigiana (tra l'estate 1246 e l'estate 1247). Tra l'estate del 1249 e la primavera del 1250 un'altra spedizione lo condusse nuovamente in Umbria e in Maremma.

Uno dei punti di appoggio più importanti del vicario era Siena, che quasi sempre gli fornì l'aiuto più efficace. Proprio a Siena nel marzo 1247 F. si incontrò con il padre in viaggio verso Lione, dove però l'imperatore non giunse perché la rivolta di Parma lo trattenne in Italia. L'unica volta durante il suo vicariato in Toscana che F. passò l'Appennino fu proprio per soccorrere il padre durante il difficile assedio di Parma, nell'agosto 1247. Nel campo davanti alla città assediata F. incontrò gli uomini più vicini all'imperatore, il fratellastro Enzo, i marchesi Manfredi Lancia e Oberto Pelavicino, Ezzelino da Romano, Pietro Ruffo e Taddeo da Sessa. Allora F. venne indicato per la prima volta come conte di Albe, il che indica che gli erano stati riconosciuti i diritti di successione. Presto però dovette precipitosamente ritornare in Toscana per impedire che Firenze cadesse in mano ai guelfi guidati dal legato pontificio ottaviano degli Ubaldini.

Il conflitto tra guelfi e ghibellini che acquisì grande rilievo politico in virtù della lotta tra papa e imperatore rese più difficile il compito di F. nella provincia affidata al suo governo. Egli si appoggiò ai ghibellini (e soprattutto a Siena), che lo sostenevano spesso soltanto per calcolo e non per convinzione, ma non poté impedire la ribellione di Firenze in seguito all'inattesa sconfitta delle sue truppe presso Figline, uno dei capisaldi imperiali, nell'estate del 1250. Cacciati i rappresentanti del vicario generale, nella città si costituì un nuovo governo (il governo del "Primo Popolo"). La situazione precipitò dopo la morte dell'imperatore, avvenuta il 13 dic. 1250. Galvano Lancia e F. ne furono avvisati pochi giorni dopo (tra il 18 e il 20 dicembre), ma non riuscirono ad evitare il tracollo dell'amministrazione imperiale in Toscana. F. tuttavia non abbandonò immediatamente la provincia, come fece invece la maggior parte dei suoi funzionari e collaboratori regnicoli. La sua presenza in Toscana è infatti attestata fino all'autunno 1251- Solo nel febbraio 1252 lo troviamo in Capitanata, nell'entourage di re Corrado IV, suo fratellastro.

Durante la Curia celebrata a Foggia all'inizio del 1252 Corrado IV riconfermò a F. la contea di Albe e gli concesse inoltre le contee di Celano (parte, come Albe, dell'antica contea dei Marsi) e di Loreto Aprutino, che dovevano però essere ancora conquistate. Dopo la morte di Federico II la contea di Celano era stata occupata da Tommaso di Celano, vecchio antagonista di F., e da suo figlio Ruggero, al quali nel 1247 Innocenzo IV aveva restituito i feudi confiscati dall'imperatore. La contea di Loreto era stata invece concessa da Federico II, a quanto sembra, al genero Tommaso (II) d'Aquino, al quale Corrado IV la tolse, probabilmente durante la Curia di Foggia, dopo che anche Tommaso era passato dalla parte di Innocenzo IV, il quale nel giugno 1251 gli aveva confermato il possesso di questa contea. Con l'aiuto probabilmente di Gualtiero di Manopello F. riconquistò la contea di Loreto Aprutino tra il 1252 e il 1253 (il castello di Loreto cinto d'assedio era stato l'ultimo a cadere mentre nulla di preciso si sa della riconquista della contea di Celano; le operazioni militari condotte nella zona a partire dall'estate 1252, invece, si inserivano nel contesto più vasto dell'offensiva pontificia contro le regioni settentrionali del Regno.

Con la concessione a F. di queste contee Corrado IV riprese la vecchia strategia dell'imperatore di assegnare le contee abruzzesi più importanti ai membri della famiglia regnante e ai loro parenti più stretti. Oltre ad Albe, Celano e Loreto anche la contea del Molise rimase legata direttamente alla dinastia sveva: re Enzo, che l'aveva detenuta, la lasciò nel suo testamento al figlio di F., Corrado. Altri feudi e diritti erano in possesso della famiglia Lancia, alla quale apparteneva la madre del futuro re Manfredi.

Benché fosse favorito da Corrado IV, per il quale combatté strenuamente sul confine settentrionale del Regno, in Abruzzo, F. sembra invece aver nutrito simpatie più sincere per Manfredi, altro suo fratellastro. Sin dal 1252 troviamo vari esponenti della famiglia Lancia nella cerchia di F., tra i quali al primo posto Galvano, che insieme con lui era stato a lungo vicario imperiale in Toscana e dei quale il figlio di F., Corrado, sposerà la figlia Beatrice. I Lancia speravano evidentemente di riottenere insieme con F. i feudi nel Regno e le cariche in Toscana, ma in una congiuntura di improvvisi e imprevedibili mutamenti di fronte, queste aspirazioni sembrano aver suscitato in Corrado IV dubbi sulla loro lealtà. Furono colpiti dal bando nel 1253, dopo la definitiva rottura tra Manfredi e Corrado IV, ed allora F. noleggiò due navi genovesi, sulle quali Federico e Galvano Lancia si imbarcarono a Tropea per abbandonare il Regno.

Dopo la morte di Corrado IV (maggio 1254) F. fu citato da Innocenzo IV ad Anagni, insieme con Manfredi ed altri nobili del Regno, ma le trattative fallirono. Manfredi, i marchesi di Hohenburg e F. furono scomunicati e privati dei loro feudi.

Nell'ottobre 1254 F. aiutò Manfredi durante la fuga dalla corte pontificia a Teano attraverso l'Appennino conclusasi con il fortunato colpo di mano contro Lucera del 2 novembre; ma già il 12 nov. 1254 Innocenzo IV improvvisamente lo qualificava "fidelis noster" e lo riconosceva come conte di Albe, Celano e Loreto, senza menzionare diritti di altri. R possibile che F., di fronte alla situazione politica poco chiara, abbia intavolato trattative personali con il papa per garantirsi il possesso dei suoi feudi, ma non è neanche escluso che il papa stesso, riconoscendogli le contee, abbia cercato di staccarlo da Manfredi, come aveva fatto precedentemente con Galvano Lancia.

Tuttavia, dopo l'elezione di Alessandro IV, quando nella Prima metà del 1255 Manfredi riportò i primi successi in Puglia e in Calabria, F. combatteva di nuovo a fianco del fratellastro contro le truppe del legato pontificio ottaviano degli Ubaldini e di Bertoldo di Hohenburg, passato dalla parte del papa. Nell'agosto 1255 partecipò all'assedio di Foggia, protrattosi a lungo. Morì durante questo assedio, negli ultimi mesi del 1255 o all'inizio del 1256, vittima di un'epidemia che colpì entrambi gli eserciti, e lo stesso Manfredi. F. infatti non viene più menzionato in occasione della Curia riunitasi ai prinii giorni di febbraio a Barletta, quando Manfredi premiò tutti i fedeli che lo avevano aiutato nella difficile impresa della conquista del Regno.

La constatazione che il carattere e le capacità paterni si espressero meglio nei figli naturali che in quelli legittimi dell'imperatore vale, come per Manfredi e per Enzo, anche per F., sebbene in misura minore. Nella difficile situazione creatasi dopo la congiura del 1246 Federico II si appoggiò infatti a Enzo e a F., affidando loro la difesa e l'amministrazione dell'Italia imperiale. F., che come il fratellastro Enzo era stato scomunicato dal concilio di Lione, non deluse le aspettative del padre, amministrando la Toscana in condizioni molto difficili. Se dopo la morte del padre a volte si trovò in conflitto di lealtà verso gli eredi legittimi dell'imperatore, non fu certamente il solo tra i partigiani dell'Impero a comportarsi così. Come Enzo anche F. si fregiava del titolo reale senza che questo, a differenza del fratello, gli fosse stato conferito formalmente. Come re F. viene qualificato in alcune cronache e in vari documenti dei Comuni toscani, dove si leggono formule come "dominus rex", "dominus Federighus filius domini imperatoris et rex" o "re Federigo". Si trattava di un titolo consuetudinario e onorifico attribuitogli in segno del rispetto dovuto al figlio dell'imperatore, in analogia con il titolo reale di Enzo. Per quel che riguarda gli interessi letterari, F. non fu certo all'altezza del padre e del fratellastro. Secondo la critica più recente è poco probabile che le tre note canzoni attribuite nella tradizione manoscritta a "re Federigo" siano opera di Federico d'Antiochia.

Mentre la dinastia sveva nella linea legittima si estinse con la morte di Corradino nel 1268, la discendenza illegittima, di cui fu capostipite F., continuò ancora per molte generazioni. Nelle genealogie italiane vengono attribuiti a F. fino a otto figli. Sono documentati però soltanto Corrado, nato verso il 1240-41 e morto dopo il 1301, e Filippa, nata verso il 1242, che nel 1258 sposò il gran camerario di Manfredi, Manfredi Maletta, e morì nel carcere di Carlo d'Angiò nel 1273. Forse F. aveva ancora un'altra figlia di nome Maria, moglie di Barnabo Malaspina.

Dopo la morte di Corrado, avvenuta poco dopo il 1301, la discendenza di F. si divise in due rami, uno rimase nel Lazio (Anticoli, Piglio), l'altro si trasferì in Sicilia, dove ottenne da Pietro d'Aragona la contea di Capizzi. Significativi sono i nomi e i matrimoni dei figli di Corrado: Federico, nato non prima del 1259 e morto il 22 luglio 1305, ebbe un figlio di nome Corrado, nato verso il 1280 e morto dopo il 1320; Bartolomeo, nato fra il 1260 e il 1265 e morto nel 1311, fu arcivescovo di Palermo come anche suo fratello Francesco, nato verso il 1265-70 e morto nel 1320; Costanza, detta Antiochetta, nata verso il 1270-75, sposò nel 1291 Bartolomeo Della Scala e morì a Verona il 7 marzo 1304; Imperatrice, nata verso il 1275-80 e morta dopo il 1307- 10 a Verona, sposò invece Federico Della Scala; Giovanna, nata verso il 1280-85 e morta il 29 dic. 1352, nel 1308 fu data in sposa a Cangrande Della Scala. Si ricordano inoltre i figli Corrado, nato verso il 1275-80 e morto dopo il 1300, e Galvano, nato anch'egli verso il 1275-80 e morto nel 1305. Nell'Italia settentrionale e centrale la discendenza di F. si estinse soltanto nel sec. XV. In Sicilia invece si era già estinta nel sec. XIV.